Trascrizione dell’intervista tenuta da Steven Wilson presso la sede della Caroline a Milano il 6 Giugno 2017.
Coma Divine: Ciò che applichi alla tua musica è una ricerca musicale e intima allo stesso tempo. In che fase sei della tua ricerca e quali riflessioni e intenti comunicativi hai affidato a “To the Bone”?
Steven Wilson: “Fasi” è la parola giusta: vado attraverso delle fasi e, prendendo in considerazione quello che stavate dicendo prima (dell’intervista), ovvero che il disco è molto diverso dall’ultimo, penso sia importante per me sentire sempre che ci sia un’evoluzione da album ad album, e che ogni album abbia una ragione di esistere. Perché, ammettiamolo, ci sono tantissimi artisti i cui lavori diventano praticamente invariati. Effettivamente è una sorta di norma: gran parte degli artisti trova una formula che funziona e, in maniera maggiore o minore, il resto della loro carriera consiste nel ripetersi e dare ai fan ciò che hanno già amato. Ma io non sono mai stato così e questo, dal punto di vista della carriera, è stato un problema e mi ha reso le cose difficili. Per quanto riguarda quest’album, tornando alla vostra domanda, credo di essere in quella fase in cui voglio focalizzarmi sulle grandi melodie e sull’arte del songwriting, con il lato rock più complesso e concettuale che ora si sta un attimo mettendo da parte. E penso che sia qualcosa (le grandi melodie e l’arte del songwriting) che c’è sempre stata (nella mia musica). Potete ascoltare molti dei miei dischi e spero possiate sentire belle melodie e ritornelli forti e orecchiabili, ma forse ora potete dire che mai come adesso – di sicuro nella mia carriera solista e forse sempre – sono focalizzato nell’arte di scrivere pezzi diretti, accessibili ma non meno sofisticati. Ovvero, penso che siano ancora pezzi sofisticati, ma sono canzoni, e penso che hanno un’immediatezza e un’accessibilità che forse non avete mai sentito in nessuno dei miei dischi precedenti, o comunque da molto tempo.
Coma Divine: Nella presentazione di “To The Bone” hai scritto che l’album è ispirato dagli artisti progressive-pop che ascoltavi negli anni ’80. In che modo questi artisti sono entrati nel tuo dna musicale e come hanno influenzato la composizione dell’album?
Steven Wilson: Sono gli album con cui sono cresciuto, perché sono stato adolescente negli anni ’80. Ed è divertente perché, ovviamente, tutti credono che sia in qualche modo associato con il decennio precedente, gli anni ’70, quando invece ero un teenager negli anni ’80! Quindi ricordo che i dischi che tutti i miei amici ascoltavano e che erano esposti nel mainstream, che sia con i video, Top of the Pops e tutta quella roba là, erano quei lavori grandi, ambiziosi, quegli album che definisco ‘dischi pop veramente sofisticati’. Uso la parola ‘pop’ con un pizzico di esitazione, perché ho capito, venendo intervistato nelle ultime settimane, che per qualcuno ‘pop’ è una brutta parola, quando invece non dovrebbe esserlo. Quei ragazzi (indicando una foto dei Beatles) erano il gruppo pop quintessenziale, oltre che il gruppo pop più famoso di tutti i tempi. Tuttavia penso che la gente abbia quest’idea che quando viene usata la parola ‘pop’ si parli di Miley Cyrus. Ma io uso la parola ‘pop’ nel senso più ampio, quando ‘pop’ era…tutto! E quei dischi degli anni ’80, quegli album di cui sto parlando, da una parte erano molto semplici da apprezzare come insieme di canzoni pop con melodie orecchiabili che potevi canticchiare in bus, molto memorabili, dall’altra compravi l’album con l’idea di poterti immergere completamente in tutti questi altri strati, come la produzione, la musicalità, i testi. C’era molta carne al fuoco. Erano semplicemente tanto ambiziosi e sofisticati quanto gli album degli anni ’70, ma forse in modo più accessibile. Sono cresciuto con quei dischi e mi mancano lavori di quel tipo, perché non ne trovo più. Sapete, intendo che oggi – penso – ci sia il pop più mainstream da una parte – boy girl boy girl – e dall’altra parte ci sia la musica underground che sia extreme metal o jazz o industrial o hip-pop, e non c’è niente nel mezzo! Non ci sono dischi che siano sia intelligenti sia accessibili. Una volta avevi Kate Bush, Peter Gabriel, i Tears for Fears, The Talking Heads, gruppi come i Police, i dischi che faceva Prince, persino Michael Jackson! Se Michael Jackson rilasciasse Thriller oggi farebbe fatica ad entrare nel mainstream perché sarebbe visto come troppo strano. Ed è qui che siamo arrivati, purtroppo. Quindi la mia ambizione era di provare a penetrare nel mio amore per quel tipo di approccio nel fare i dischi.
Coma Divine: Cosa ci puoi dire dell’artwork di “To The Bone”? Come è nata l’idea dei colori sul corpo?
Steven Wilson: È stata un’idea di Lasse. Abbiamo scattato molte foto diverse. Il motivo per cui lo dico è che non voglio che pensiate che io abbia avuto questa visione che sarei apparso nella copertina del disco in rosso e blu. Non è proprio andata così. Avevamo tante idee e abbiamo scattato diverse foto e quando abbiamo visto il risultato finale, quella era la cover giusta.
Coma Divine: Quella che vi piaceva.
Steven Wilson: Beh, non era proprio questione di “Ti piace”, semplicemente sembrava essere la copertina di un disco! Sapete, ha quel tocco di Bowie, quel Bowie un po’ alieno, ed è molto diretta artisticamente. In questi giorni bisogna pensare all’artwork come a qualcosa che deve apparire grande sul telefono di una persona, su Spotify. Ed è il motivo per cui i giorni in cui avresti potuto fare una copertina come “Sgt. Pepper” se ne sono completamente andati, perché tutta la complessità andrebbe persa. Quindi devi pensare a qualcosa di molto semplice, veramente diretto e iconico. E volevo qualcosa che riflettesse al meglio il titolo “To the Bone”, che ha diversi significati su più livelli. I due livelli più importanti sono: prima di tutto è un commento sulla natura della verità nell’era post Donald Trump. È l’idea di voler arrivare al vero nocciolo di ciò che effettivamente è la realtà e non riuscirci. D’altra parte “To the Bone” riflette anche il fatto che l’album è uno dei più personali e diretti che abbia mai fatto, e la mia missione era quella di riflettere il titolo e per questo motivo sembrava naturale, per la prima volta nella mia carriera, di mettere me stesso nella copertina – o, meglio, mettere me stesso senza una maschera anti gas – e dire: “Questo sono io. Questo sono io nudo. Questo sono io che presento me stesso”. Penso di essere arrivato alla conclusione di avere un’immagine molto forte. Quando ho cominciato non avevo la confidenza con me stesso che ho ora, e vedo che anche la gente ha un’idea su di me. Vedo, in giro sul web, molte persone fare battute, in modo simpatico, sugli occhiali e sui capelli. Forse ora ho un’immagine iconica che la gente può associare e connettere con la mia musica. Quindi questo è un modo molto veloce – che ci crediate o meno – di dire tutto ciò di cui ho discusso con la casa discografica, con il mio management e con Lasse. E alla fine abbiamo deciso di provare per quest’album qualcosa di molto artistico ma allo stesso tempo una foto di me molto intima.
Coma Divine: ( Alessandro): E non è un mistero che mia figlia Viola ti chiami Mr. Cool, ricordi?
Steven Wilson: Ah, ok, giusto! Mi domando cosa ha detto quando ha visto questa foto, se l’ha vista! Oh, ok, l’importante è questo! Sai, mettere te stesso nella copertina di un disco non è qualcosa che..di nuovo, la gente ha questa idea che io faccia progressive rock, ok? Che va bene, non ho nulla da obiettare al termine, per quanto io di mio non ne faccia uso. Ma mettere te stesso nella copertina di un disco non è qualcosa che tradizionalmente fai se suoni quel genere di musica. Ed è proprio questo il motivo per cui mi piace farlo! Quando crescevo i miei idoli erano Prince e Bowie, e loro apparivano sempre sulle copertine dei loro dischi. Erano popstar, e una piccola parte di me vuole ancora essere una popstar. Perché quando avevo quindici anni volevo essere Prince – sapete, totalmente irrealistico! – ma una piccola parte di me ancora ci spera. Ancora amo l’idea della magia di essere una popstar!
Coma Divine: La title-track parla del concetto di “verità” come realtà sempre meno universale e sempre più vincolata alle convinzioni personali. Cos’è secondo te la verità e perché hai sentito la necessità di scriverci una canzone?
Steven Wilson: È proprio una domanda da un milione di dollari! Cos’è la verità in questi giorni? È una parte dell’intero messaggio del dialogo di apertura, pronunciato da un’insegnante di colore del Texas che è una mia cara amica. E potreste dire: “Wow, tra tutte le persone che potrebbero sapere qualcosa sui pregiudizi e la natura della verità hai scelto proprio un’insegnante di colore che insegna in una scuola del Texas!” Quindi sì, sa di cosa parla, è stata una scelta facile! Ma è impossibile arrivare alla vera natura della verità in qualsiasi modo…Penso tu possa avere la tua propria verità personale ma questo a sua volta è un paradosso, perché la verità dovrebbe essere un assoluto. Quindi la mia verità dovrebbe essere la stessa tua. Ma non lo è, giusto? Perché tutti noi abbiamo i nostri ideali, che siano religiosi, politici, i nostri gusti musicali e cinematografici, la politica con la p minuscola e quella con la P maiuscola. E la verità oggi è qualcosa che è proprio impossibile da reggere, è in uno stato di flusso continuo. Potresti argomentare che questo è uno dei motivi per cui la razza umana è così insicura, perché noi come specie siamo molto insicuri e lo stiamo diventando sempre di più, di settimana in settimana, di anno in anno. E parte del problema è che i media, i politici e i terroristi stanno facendo un ottimo lavoro per confonderci, e mi sembra che confusione e paura siano presenti nella società ogni giorno sempre di più. Quindi credo che “To the Bone” sia come una richiesta. Non so se abbiate un’espressione simile in italiano. Avete espressioni simili? Arrivare “al nocciolo” di qualcosa (letteralmente “all’osso”)? Arrivare all’anima, al centro. Sapete, la richiesta: “Possiamo semplicemente arrivarci (alla verità)? Possiamo mettere da parte tutte queste stronzate e arrivare alla verità assoluta, alla realtà assoluta?” Certo, è completamente irrealistico, ma..
Coma Divine: Pariah, in duetto con Ninet Tayeb, sembra voler essere, anche per le tematiche trattate, una versione del 21esimo secolo di Don’t Give Up di Peter Gabriel e Kate Bush. Nasce proprio da qui l’ispirazione per il brano?
Steven Wilson: Non in maniera consapevole, ma lo riconosco, è chiaro, ha qualcosa del pezzo di Peter Gabriel. È una canzone riguardo un ragazzo e una ragazza e il ragazzo sta dicendo “Che senso ha (vivere)?” e la ragazza “Hai ancora molto da scoprire”. Quindi il sentimento è molto simile alla canzone di Peter Gabriel. È stata una cosa casuale, non consapevole, ma certamente, allo stesso tempo, ‘So’ era uno di quegli album che avevo bene in mente come modello guida per quello che volevo fare. Quindi non posso di certo nascondermi (ride ndr)! Quello che voglio intendere è che non c’è nulla di nuovo nel mondo della musica in questi giorni e sì, è stata una cosa fortuita ma ovviamente posso vedere il parallelo.
Coma Divine: Due brani del nuovo disco sono scritti assieme ad Andy Partridge degli XTC, band alla quale sappiamo sei molto affezionato. Come è nata questa collaborazione?
Steven Wilson: Ho lavorato con Andy negli ultimi anni per i remix in surround del suo catalogo ed è diventato un amico. È un ragazzo simpatico, affascinante, carismatico e veramente intelligente e non fa più dischi per conto suo, sebbene sia qualcuno della cui abilità di scrivere canzoni ho ancora grandissima ammirazione. E quando ho scritto la canzone ‘To the Bone’ – e un’altra canzone intitolata ‘How Big Is This Space?’ che non è nell’album ma uscirà più avanti – io stesso non avevo un’idea forte per i testi. Quindi ho chiamato Andy e gli ho detto “Hey Andy, sei abbastanza bravo a scrivere testi..sai, questa è una canzone che voglio sia sulla natura della verità, ma non ho nessun testo”. Ed è stato straordinario, ha preso il compito molto seriamente, mi chiamava sempre e mi diceva: “Ho una riga, cosa ne pensi?” e io “Sì, ok, fammi controllare”. Si è preso la responsabilità molto, molto seriamente e ne è venuto fuori con questi testi che racchiudono del tutto ciò che volevo intendere.
Coma Divine: Qual è stato il ruolo di Paul Stacey nella registrazione di “To The Bone”?
Steven Wilson: Volevo che quest’album fosse diverso dai precedenti. Uno dei modi per rendere un disco diverso è cambiare le persone con cui lavori. E se c’è una cosa che ho scoperto, essendo un musicista che ha sempre voglia di evolvere e cambiare, è che puoi cambiare tutto tranne te stesso! L’unica cosa che non puoi cambiare sei tu. Per questo potrei facilmente annoiarmi da solo con ciò che faccio, sai, la sensazione che qualcosa suoni come materiale che ho già scritto. Ma se c’è una cosa che ti può ispirare è avere qualcuno che ti spinga oltre. Paul ha cominciato come semplice ingegnere del suono, ma ben presto ci siamo resi conto che era incline per natura ad essere anche un co-produttore, perché stava facendo qualcosa in più dell’ingegnere, stava avendo opinioni. Ed è una persona con molte idee, il che è ottimo perché era ciò di cui avevo bisogno, qualcuno che mi dicesse “No, potresti farlo meglio”, “Potresti farlo in questo modo”, “Hai pensato a questo?”. E la cosa principale che ha fatto, la cosa più importante che ha fatto per me, è farmi pensare da cantante. Ora, il motivo per cui dico questo è che quando sei l’autore di tutte le canzoni, non pensi effettivamente a te stesso come ad un interprete, e in ogni caso di mio non sono il cantante più confidente che esista. Ma lui mi ha fatto pensare come un cantante e mi ha fatto esibire in studio. E ciò che mi ha fatto fare, probabilmente l’avete visto nella clip, è cantare effettivamente con Ninet. Abbiamo cantato le due canzoni (‘Pariah’ e ‘Blank Tapes’) guardandoci in faccia. Ed è terrificante per me, perché lei è una cantate straordinaria e io faccio quello che faccio, ma Paul diceva: “No, dovreste farlo come un duetto, assieme”. E mi ha dato la confidenza di pensare a me non solo come l’autore che di conseguenza cantava, ma effettivamente come un cantante, qualcuno che interpreta il materiale. Abbiamo lavorato molto su quel lato dell’album, i cori, le voci. Quindi è qualcuno che mi ha spinto oltre, qualcuno che mi ha dato la confidenza come cantante e qualcuno che ha avuto molte opinioni e mi ha fatto pensare di fare le cose in modi diversi, modi che non avrei pensato, esattamente come dovrebbe fare un produttore.
Coma Divine: Oltre ai già noti Craig Blundell, Nick Beggs, Adam Holzman e Ninet Tayeb, nel nuovo album ti avvali dell’aiuto di alcune facce nuove come il chitarrista David Kollar, il leggendario Mark Feltham, Jeremy Stacey alla batteria e la cantante Sophie Hunger. Puoi parlarci brevemente del loro contributo alla tua musica?
Steven Wilson: La risposta sarebbe diversa per ogni caso, e non ho tempo a sufficienza per parlare di tutti. Ma, per esempio, Mark Feltham, l’armonicista, è un musicista presente su molti dei dischi a cui mi sono riferito. Il suo sound può essere sentito negli album degli anni ’80 dei Talk Talk, nei dischi dei The The, un altro gruppo di cui ero un grande fan, e quel tipo di armonica un po’ sporca, blues, è un tipo di suono caratteristico in molti di quei dischi: Undusk, Mind Bomb, Spirit of Eden, Colour of Spring.. e volevo quel sound, molto semplicemente. Mark è arrivato al termine del processo di registrazione, ed è entrato con questo bellissimo completo di velluto con una cravatta mentre noi eravamo in studio già da due mesi ed eravamo completamente esausti. Quindi lui è arrivato ed era decisamente il più elegante, e ha suonato in maniera meravigliosa. Quando abbiamo sentito per la prima volta quel sound, Lasse, che era in studio e stava filmando per un documentario, si è messo a piangere, perché è un tipo di sound così potente che quando qualcuno lo sente ne rimane colpito. In un certo senso Mark fa quello che normalmente potresti ottenere da un chitarrista, ma se lo sentissi fatto da un chitarrista diresti “Mah, è qualcosa che ho già sentito”. Però quel tipo di sound è così fresco, soprattutto oggi, perché è da un po’ che non ne sentiamo di simili. Jeremy invece è il fratello di Paul, che me l’ha raccomandato. Jeremy è un tipo di batterista molto diverso stilisticamente dagli altri con cui ho lavorato, molto più incline al groove e all’atmosfera.
Coma Divine: “To The Bone” contiene alcuni dei pezzi più gioiosi della tua carriera. Pezzi come Nowhere Now, The Same Asylum as Before e, soprattutto, Permaneting sono nati come “sfida” o spontaneamente?
Steven Wilson: Penso fossi consapevole che, a causa degli argomenti di cui stavo trattando, i terroristi, i fondamentalisti religiosi, i rifugiati, sarebbe potuto essere l’album più deprimente di sempre. E credo che ad un certo punto mi sono addirittura detto..
Coma Divine: Devo scrivere canzoni felici!
Steven Wilson: Sì! Ho bisogno di presentare anche l’altro lato delle cose, perché la gente ha questa idea che io sia una persona depressa e malinconica, ma non lo sono affatto! Tuttavia capisco perché lo pensi, a causa della musica che sono solito fare. Quindi credo che questa volta fosse una scelta ponderata cercare di iniettare nell’album un po’ di positività, gioia, euforia e, allo stesso tempo, coesione. E credo che l’album termini in un bel modo: Song of Unborn è una ballata malinconica, ma ha un’energia molto positiva. Quindi forse è stato una diretta conseguenza del fatto che stessi scrivendo cose molto cupe.
Coma Divine: Il tema principale di “People Who Eat Darkness” è il terrorismo. Cosa ne pensi, da musicista, degli attentati avvenuti al Bataclan due anni fa e a Manchester e Londra pochi giorni fa? Cosa puoi pensare?
Steven Wilson: Che sarò terrorizzato, e sfortunatamente salirò sul palco a febbraio con, nel retro della mia mente, una paura che non ho mai avuto prima, e questo non è un bello stato d’animo. E penso che ognuno di noi oggi abbia questa paura ogni qual volta si trova in uno spazio pubblico, che sia sul treno o in una fermata del bus. Sfortunatamente è proprio quello che vogliono e vogliono ottenere, e l’hanno ottenuto. Questo è il mondo in cui viviamo oggi. Sono sorpreso da come il mondo sia cambiato in un lasso di tempo relativamente breve da quando ho scritto Hand.Cannot.Erase. tre anni fa. Il mondo è diventato un posto completamente diverso, e non per il meglio. Cosa si può dire se non che ci sia un piccolissimo lato positivo in tutta questa faccenda, che credo essere in qualche modo collegato a quanto dicevamo prima? Il pop degli ultimi anni per molto tempo è stato banale, conservativo, noioso – boy girl boy girl – e ora, dal concerto di Ariana Grande a Manchester, quel mondo si è scontrato con quell’altro e mi domando se ora, finalmente, alcune di quelle popstar mainstream dovranno affrontare la realtà del mondo in cui stanno vivendo. Molto semplicemente non possono continuare a scrivere quelle cazzate evasive e ignorare il resto. Una delle cose positive riguardo la musica pop e rock è che molto spesso si sviluppa in periodi di crisi politica e guerra, basta pensare alla musica psichedelica nata durante la Guerra del Vietnam o il punk dall’Inverno dei discontenti in Inghilterra. Forse ora ci sarà un maggiore scontro tra la generazione più giovane e i musicisti pop che scrivono per loro e il mondo in cui vivono, perché fino ad ora si sono accontentati di esistere. È un peccato debbano farlo, ma penso sia necessario.