Fear of a Blank Planet

Fear of a blank planet

Fear of a Blank Planet: semplicemente musica emozionante ma al tempo stesso più complessa e intensa di quanto si possa pensare

Rumori di dita che scorrono veloci sulla tastiera di un computer, prima di un ritmo frenetico che ci introduce nel nono disco dei Porcupine Tree, vero e proprio concept album.
‘Fear of a Blank Planet’, la title track che apre le danze, illustra da subito le tematiche del disco. Attraverso il racconto proveniente dalla voce del bambino protagonista, i Porcupine Tree descrivono sensazioni di alienazione e apatia, indotte nei giovanissimi dall’utilizzo smodato e incontrollato delle moderne tecnologie, e dalla crescente dipendenza che esse inducono nelle menti troppo spesso abituate ad avere tutto e subito.

Nel raccontare questa crescente perdita di stimoli e interessi, verso una sempre più veloce e superficiale catalogazione e classificazione di noi stessi, i Porcupine Tree, guidati da Steven Wilson, utilizzano suoni e soluzioni estremamente moderni, e con l’atmosfera oscura dipinta dalle sei canzoni che compongono l’opera, cercano di sottolineare l’inquietudine indotta da tanta modernità. Pur senza gettarsi in ardite sperimentazioni elettroniche futuribili, la band di Wilson crea strati sonori limpidissimi, abbaglianti nella loro perfezione, lasciando una fredda sensazione sulla pelle, resa ancora più glaciale dai semplici ma efficaci inserti elettronici, per non parlare degli straordinari momenti tastieristici, malinconici e sognanti, guidati da Richard Barbieri.

In certi momenti di Fear of A Blank Planet, chitarre pesanti e distorte, dalle accordature ribassate, contribuiscono a creare quel distacco tra mondo reale e mondo virtuale che anestetizza la mente dei giovani protagonisti. Testi semplici e diretti, come le parole di un bambino, ma anche come le sensazioni che scorrono dentro ognuno di noi. Una critica feroce alla velocità della società odierna, che mastica e poi sputa ogni forma artistica, prima ancora di averla digerita e metabolizzata, Wilson, noto per la sua prolificità compositiva, cerca di limare al massimo ogni angolo, per non lasciare nessun momento di calo. In 50 minuti bilancia perfettamente il lato più sperimentale della sua musica con quello più classicamente pop, non ha paura di richiamare un po’ di sana psichedelica ma soprattutto di proseguire quella via prog-metal che lo accompagna dai tempi di In Absentia. Le canzoni non sono dilatate come ai vecchi tempi, ma precise e compatte, pulite e rifinite, perdendo forse un po’ di fascino misterioso ma acquistando una decisione ed una sicurezza necessarie per affrontare con lucidità le tematiche del concept, come l’annientamento della coscienza critica.

Il pezzo di apertura è la title-track ‘Fear of A Blank Planet’: un immediato richiamo al rock di Deadwing (2005), con la sua frenesia e velocità, quasi ripetitiva nella prima parte, prima di un finale dal sapore progressivo e vagamente psichedelico davvero strabiliante. Una cantilena grottesca e volutamente forzata che esalta l’assenza di volontà di svegliarsi e di dare una scossa alla propria dipendenza, una sorta di Nevermind di nirvaniana memoria, che diventa evidente nel richiamo testuale ai Pearl jam (autori di una canzone come Jeremy che affronta problemi analoghi, anche se in maniera diversa). Il suicidio non è una via d’uscita, né una vendetta, né un grido d’aiuto, neanche il suicidio può cambiare qualcosa. E comunque sia, non importa che cambi qualcosa.

‘My Ashes’, secondo capitolo di Fear of A Blank Planet, è una ballata che si snoda su una melodia malinconica dapprima accompagnata da pianoforte e chitarra acustica, poi innalzata da un magistrale utilizzo degli archi, che la rendono epica e grandiosa, nel corso dell’emozionante ritornello. Perfetta sintesi dell’intimità nostalgica e della epicità sinfonica dei Porcupine Tree del nuovo millennio.

Ma il fulcro di Fear of A Blank Planet è indubbiamente il brano centrale, la lunga ‘Anesthetize’. Brano complesso ma incredibilmente scorrevole, si dimostra fondamentale sia dal punto di vista lirico che musicale. Indubbiamente una delle composizioni più coraggiose e particolari di Wilson, miscela perfetta delle varie passioni musicali del musicista inglese, ma dotata soprattutto di una personalità vibrante, che la rende una vera e propria perla nel panorama progressivo contemporaneo.

Strutturata in tre parti molto diverse tra loro, scivola con semplicità come le onde del mare sulla sabbia, fino al malinconico finale. Una prima parte estremamente percussiva e sognante caratterizzata da un utilizzo molto particolare della voce, alta e sospesa al di fuori della mente. Qoi una profonda caduta, tra riff monolitici, gommosi e rallentati, degni dei migliori Meshuggah, e stacchi elettronici, psichedelici nel loro techno-ritmo ipnotico, fino a vere e proprie esplosioni di furia travolgente (ottimo il lavoro di Gavin Harrison dietro le pelli). Infine l’ultima parte, una lenta e sognante serie di onde pink floydiane, per narrare con tragica malinconia la perdita di se stessi, la dissociazione ormai avvenuta, l’eclissi finale. Il dolce e malinconico ricordo di sensazioni autentiche e calde, che lentamente svaniscono e ci abbandonano al grigio opprimente della polvere. 17 minuti assolutamente magici, dal forte sapore sperimentale ma anche emotivo, assolutamente tra i momenti migliori della discografia dei Porcospini. Da notare il bellissimo assolo di chitarra, composto e suonato da Alex Lifeson dei Rush.

‘Sentimental’ è una semplice ballata guidata dal pianoforte, vicina ai pezzi più malinconici dei Blackfield (side project di Steven Wilson dal sapore pop), travolgente nel suo ritornello, molto orecchiabile ma altrettanto intenso. Quarta traccia del disco, segna la sentimentale presa di coscienza di fronte ad un’incapacità di ogni reazione. C’è un barlume di speranza, una piccola fiammella che ancora brucia dentro, c’è ancora ossigeno.

La voglia di fuggire e di reagire con forza si ha nella successiva ‘Way Out of Here’, ma non è dato sapere se lo svanimento sarà una via di fuga o semplicemente l’ennesimo modo per anestetizzarsi di fronte al nulla che ci circonda, gettandosi tra le sue braccia. Grazie ad un utilizzo della voce molto emotivo, sentito, sincero, in contrapposizione ad una musica che mischia basi elettroniche e chitarre metal, questa traccia si dimostra uno degli apici di Fear of A Blank Planet. Un ritornello che richiama certe atmosfere dream theateriane, ma con qualche accorgimento sperimentale in più, e un finale ipnotico guidato da Robert Fripp, aumentano il fascino prima della canzone conclusiva, ‘Sleep Together’.

Quest’ultima è un salto nell’ignoto, una fuga lontano da ciò che si è stati, una piccola rivoluzione che conclude in maniera misteriosa e affascinante il percorso iniziato, al contrario, con l’apatia e l’anedonia. Musicalmente coinvolgente per la sua capacità di far convivere con naturalezza un ritornello classicamente rock (dal sapore Beatles) a parti elettroniche che prima fungono da tappeto alla malinconica linea vocale del verso, poi sovrastano ogni strumento nella grandiosa fine, ipnotica e circolare, come una spirale, che lascia ogni domanda in sospeso, prima di una rullata finale, nel vuoto, come una porta che si chiude, improvvisamente.

I Porcupine Tree con Fear of A Blank Planet, per l’ennesima volta, si confermano una delle più interessanti band del panorama rock, grazie anche ad una personalità solida e ben definita. Nessuna rivoluzione, semplicemente musica emozionante e per niente banale, più semplice di quanto possa sembrare dai curatissimi arrangiamenti, e al tempo stesso più complessa e intensa di quanto si possa pensare in base alle melodie immediate e orecchiabili. Una musica da scoprire, assorbire e metabolizzare lentamente, senza la frenesia vorticosa che caratterizza la società attuale