STEVEN WILSON – TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI, MILANO (08/02/2018); ATLANTICO, ROMA (09/02/2018)

09/02/2018 – Teatro degli Arcimboldi, Milano
10/02/2018 – Atlantico, Roma

"An evening with…" riempiamo i puntini come meglio ci pare, perché in “questa” serata con Steven Wilson, si è manifestato di tutto, anche ciò che non ci si sarebbe mai aspettati di dover vivere.
Steven Wilson Setlist Teatro degli Arcimboldi, Milan, Italy 2018, To the Bone
steven_wilson sold out milano 2018

“An evening with… STEVEN WILSON”: così recitava la locandina in bella mostra al Teatro degli Arcimboldi, presentazione diretta della realtà che si stava affacciando la sera del 9 febbraio 2018 nella periferia milanese, nonché tappa obbligata per i doverosi selfie-reliquie da concerto (mentre qualcuno pensava addirittura a come portarla via). “An evening with-Una serata con…”: con un  teatro gremito; con un pubblico eterogeneo; con gli amanti del presente; con gli amanti del passato;  con gli amanti del passatissimo ; con gli amanti a prescindere; con i curiosi e basta. Perché To The Bone ha incuriosito eccome, e Mr.Wilson lo sa bene, tant’è che la gestione del palco si è rivelata sin da subito studiata a puntino, con un atteggiamento dall’apertura decisamente poco underground ed evidentemente piuttosto… pop, appunto.  

“An evening with…”: riempiamo i puntini come meglio ci pare, perché in una serata con Steven Wilson, anzi, in “questa” serata con Steven Wilson, si è manifestato di tutto, anche ciò che non ci si sarebbe mai aspettati di dover vivere, come balletti improbabili, plausi alle voci femminili non presenti o panegirici vari a motivare le ultime virate stilistiche. Lo stupore ha cominciato a manifestarsi già quando, abbassate le luci, ha preso vita sullo schermo la proiezione  di immagini associate a concetti che si invertivano continuamente tra di loro, con la chiara intenzione di rappresentare il significato  della post-verità,  argomento su cui Wilson ha voluto soffermarsi parecchio nell’elaborazione del nuovo album: cosa intendiamo per odio? Per fede? Per compassione? Siamo consci del fatto che nulla di ciò che percepiamo abbia senso assoluto, ma è opinabile e soggettivo?

La scaletta ha preso vita così, dal susseguirsi sempre più frenetico e incalzante di quelle immagini relative ai principali topics della vita contemporanea che, esaurendosi, ha lasciato spazio alle note di ‘Nowhere Now’, brano di apertura dello show che ci è parso, però, un po’ debole, con qualche sensazione di “vuoto” all’interno del pezzo non meglio  definibile…un Blundell un po’ poco convinto? Col senno di poi realizziamo però che le nostre orecchie sono forse ancora disabituate a certe sonorità d’ingresso così melodiche: credevamo di essere pronti, dopo mesi di attesa e di ascolti, e invece no. Lo stupore continua. 

E continua anche con ‘Pariah’, primo estratto da To The Bone, eseguito però senza la presenza di Ninet, scelta che ha fatto storcere il naso a più di qualcuno. Subito dopo abbiamo potuto rilassarci (si fa per dire) con l’accoppiata vincente ‘Home Invasion’ e ‘Regret #9’, dove anche il nostro batterista è sembrato sciogliersi, il motore ha preso a viaggiare che è una bellezza, Holzman-Dio alle tastiere  lasciava magistralmente spazio ad Hutchings, che è riuscito a dare una sua personalissima e  intensa interpretazione dell’ambizioso assolo del brano. La scelta del chitarrista da parte di Wilson per questo tour ci è sembrata da subito condivisibile e adatta, pur evidenziando uno stile molto diverso da quello di Kilminster.  Altro stupore.

A seguire, ‘The Creator Has a Mastertape’ è stata la prima scelta dal repertorio dei Porcupine Tree, seguita da uno dei brani più amati e suggestivi di To The Bone, ossia ‘Refuge’, dove però l’assenza dell’armonica di  Feltham ha tolto un po’ di brividi, per quanto la soluzione chitarristica in sostituzione della stessa ci è parsa ottimale. Un preambolo in cui Wilson ha fatto riferimento alla madre appassionata di serial killer ha aperto il tema del brano successivo, ‘People Who Eat Darkness’, in cui si sono messe in luce le notevoli doti vocali di Beggs e Hutchings a supporto del pezzo, cosa che poi avremo modo di riscontrare anche in altre parti della setlist, specie nella superba ‘Heartattack in A Layby’. E da qui lo show è scivolato  via da solo, in questo alternarsi strategico tra le parti più prog-strumentali del repertorio di Wilson, come l’impeccabile e onirica ‘Ancestral’ o ‘Arriving Somewhere But Not Here’, e  brani più immediati come ‘Permanating’, quest’ultimo anticipato da un lungo monologo dell’artista a ricordo della “fuckin’ amazing music” degli anni ’70 e della vera musica pop di qualità, che va nettamente distinta da ciò che oggi si definisce con questo termine, come ad esempio quella “shit” di Justin Bieber. 

Non contento, Wilson ha preteso di vederci tutti in piedi per sculettare al ritmo di questa contaminazione pro ABBA: impossibile rimanere fermi. Con questa provocazione bonaria che ci ha lanciato tutti in una sorta di ipnosi collettiva, quasi dimentichi della diaspora che il famigerato brano ha creato persino tra di noi, seguaci accaniti dell’artista britannico, era ormai chiaro il genio del male del prog si era aperto una strada senza ostacoli verso l’ultima parte dello spettacolo: risucchiati a questo punto in un vero e proprio vortice  in cui la molteplicità di stimoli sembrava quasi toglierci il fiato, siamo passati tra gli effetti scenografici e le danze catalizzatrici della ballerina di ‘Song of I’, all’ormai rodata e commovente ‘Lazarus’,  al nuovo funky-prog di ‘Detonation’, al falsetto di ‘The Same Asylum as Before’, alla già citata ‘Heartattack in A Layby’, fino a chiudere con una tostissima ‘Vermillioncore’ seguita da ‘Sleep Together’ che ha segnato l’apice del crescendo emotivo di tutti noi, musicisti e pubblico.

Il bis ci ha regalato una commovente versione solo voce e chitarra di ‘Even Less’ e la sua affezionatissima, quasi insostituibile ‘Harmony Korine’; infine ad aspettarci al traguardo, sempre lui,  il corvo di ‘The Raven That Refused To Sing’, che ha chiuso tutti gli accordi e le emozioni in un’unica grande bolla, lasciata lievitare lentamente sulle nostre teste…Completamente cotti, storditi e stupiti, ancora incapaci di giudicare,  ci siamo avviati all’uscita del teatro, dove abbiamo udito una voce emozionata alle nostre spalle pronunciare queste parole: “Bello, mi è piaciuto, ma mi è sembrato  un concerto da furbetto..!” Mi è venuto da sorridere trovandomi a fare mia quell’affermazione: se per furbizia si intende la capacità di coniugare il vecchio e il nuovo, il conservatorismo e l’innovazione, la forma e la sostanza, il fanatismo e la libertà, il prog e il pop senza scontentare nessuno…beh sì, concerto bello e da furbetto, non c’è che dire.Ma noi incontentabili avevamo bisogno di un’altra prova a sostegno delle nostre impressioni di questo attesissimo tour.

E così il giorno dopo rieccoci:  Atlantico; Roma; un freddo che non si può descrivere;  un’altra “Evening with…STEVEN WILSON”. 

Stavolta la location era completamente diversa e sarà perché si doveva stare tutti in piedi, sarà perché la struttura era lontana mille miglia dalla cura e dalla raffinatezza del  teatro degli Arcimboldi, sarà perché gli stand del merchandising allestiti all’esterno  sapevano di vecchi live show molto poco borghesi, sarà quel che sarà, in ogni caso ci è sembrato di sentire in maniera più “viva” l’atmosfera del concerto, che qui assumeva connotazioni molto più intime, rockeggianti e partecipative.

Come se questa sensazione fosse condivisa anche dai musicisti  sul palco, la scaletta (identica) è scivolata via in maniera più fluida, non c’era segno delle incertezze che avevamo avvisato in alcuni punti, specie iniziali, dello show di Milano: Wilson e i suoi sono stati avvolti virtualmente dal calore di una platea che ha potuto sciogliersi in movimenti e canti, dando vita ad un coinvolgimento reciproco progressivamente crescente. Non è mancata, all’interno dello show, la citazione accalorata dell’artista all’Italia e a Roma in particolare, che dai tempi dei Porcupine Tree aveva dimostrato grande affetto nei suoi confronti; così come non è mancato il suo rimprovero a chi, noncurante del divieto, continuava a fare video in sala.

Lo stupore ha continuato ad accompagnarci anche dopo lo show romano, le emozioni erano contrastanti: avevamo indubbiamente assistito a qualcosa di diverso, ma quanto era difficile definirlo! Ciò che rimaneva, al di là delle critiche e delle osservazioni, era il solito, totalizzante stato di ebbrezza e soddisfazione… Inutile chiedersi cosa avremmo fatto se non lo seguissimo da sempre, come avremmo giudicato quest’album e questo tour senza aver conosciuto i suoi esordi, è davvero completamente inutile, perché non se ne può proprio fare a meno: di comprenderlo, di accoglierlo, di seguirlo, con tutta la nostalgia malata dei Porcupine Tree, con i ricordi febbricitanti del tour di H.C.E., con il prog geniale e straniante dei suoi primi album solisti, con tutto questo bagaglio alle spalle, non possiamo comunque non riconoscere che è sempre lui, Steven Wilson, colui che è in grado di stupire. Sempre, To The Bone, fino all’osso.

Recensione di Lucia Grammatico; foto di Francesca Savina