STEVEN WILSON – ALCATRAZ, MILANO (10/05/2012)

10/05/2012 – Alcatraz, Milano

Dulcis in fundo, Steven Wilson, ovvero, in poche parole, un uomo che ha avuto il coraggio di lasciarsi andare ai suoi desideri e di trasformare le sue idee in un progetto, senza curarsi del giudizio degli altri, raggiungendo davvero uno stato di grazia.
Steven Wilson Setlist Alcatraz, Milan, Italy 2012, Grace For Drowning
steven wilson tour 2012

Sono passate da poco le sette, ed il pubblico è in fila ordinatamente fuori dall’Alcatraz. Come nella prima data londinese, a cui ho avuto la fortuna di assistere, ci sono persone di ogni genere ed età. Il tempo di scambiare quattro chiacchiere con altri fan e si entra.
Il palco è dietro un velo semitrasparente; si intravedono le luci degli amplificatori ed un ragazzo che prepara chitarre su chitarre. Promette bene.
Sullo schermo, comincia la proiezione dei filmati che Lasse Hoile, da tempo collaboratore di Steven, ha realizzato appositamente per il concerto, mentre ‘Cenotaph’ dei Bass Communion (un altro progetto di Wilson) riduce via via le chiacchiere, nonostante il locale si stia riempiendo in fretta.

Verso le nove, una figura alta e dinoccolata si accomoda dietro la batteria, e parte l’introduzione di ‘No Twilight Within the Courts of the Sun’. A Marco Minnemann (batteria) si uniscono, uno alla volta, Nick Beggs (basso e Chapman stick), Adam Holzman (tastiere), Theo Travis (fiati), Niko Tsonev (seconda chitarra) ed infine Steven Wilson (voce, chitarra, piano). L’entusiasmo del pubblico sale, ma non c’è troppo spazio per le urla, la musica richiede tutta la nostra attenzione.

Osservo i musicisti uno ad uno e noto che Steven indossa la stessa maglietta di Londra, con scritto sulla schiena “Art is truth”. Si muove in modo meno sincopato della volta precedente, sembra più rilassato ed a suo agio. Ringrazia il pubblico, in un italiano non troppo legnoso, passa da un compagno all’altro come per assorbirne la musica, fa ampi gesti con le mani, ma più per accompagnare che per dirigere. È chiaro comunque che è lui il centro ed il motore di tutto.

Sugli schermi davanti e dietro al palco continuano ad essere proiettate le suggestive immagini di Lasse, in cui i musicisti risultano immersi come in un acquario. Dopo una trascinante ‘Index’, la cui frase iniziale “I’m a collector” pronunciata con voce distorta non manca mai di darmi un brivido, comincia ‘Deform to Form a Star’, uno dei miei pezzi preferiti, proposto con un arrangiamento molto incisivo. Verso la fine del brano ‘Sectarian’ il velo finalmente cade, in un boato. (Questa volta sì, urliamo).

La dolcezza malinconica di ‘Postcard’ è seguita dal muro compatto di ‘Remainder the Black Dog’ ed ‘Abandoner’, a cui Minnemann aggiunge nuova energia.
Quindi, Steven siede al piano, su cui campeggia il suo inseparabile Mac, e spiega che il successivo sarà un brano che inizialmente non era incluso nella scaletta del concerto, che è stato proposto a Parigi come una tantum ma, vista l’ottima resa, è stato presentato anche nelle date successive.
Ho amato ‘Insurgentes’ fin dalla prima volta che l’ho sentita, ma i primi versi, sussurrati da Steven con voce ispirata, mi fanno quasi piangere. Come nei brani precedenti, ogni musicista aggiunge il suo contributo senza coprire quello degli altri, ma creando un mosaico sonoro che toglie il fiato.

Al termine, un’altra sorpresa. Steven spiega che dopo più di quaranta date ormai lui ed i suoi compagni non sono più solo colleghi, ma sono una vera e propria band. Per loro  (e con loro) sta scrivendo i pezzi per il suo prossimo album solista, di cui ci darà una anticipazione, che sarà “lunga ed epica”. Comincia ‘Luminol’, ed io ho la sensazione di essere finita sulle montagne russe. Ogni strumento trova il suo ruolo e la sua voce ancora più naturalmente che nei brani precedenti, ed anche Tsonev, leggermente in sordina fino a quel momento, ha modo di mostrare tutta la sua bravura. Riprendo il fiato con ‘No Part of Me’, preparandomi al gran finale.

Steven scherza sul fatto che la scaletta comprende solo dodici pezzi, ma ‘Luminol’ ne valeva quattro e ‘Raider II’, che stanno per iniziare, ne vale cinque, quindi i soldi dei nostri biglietti sono stati spesi bene.
La versione dal vivo di ‘Raider II’ è di un paio di spanne sopra a quella del disco: le emozioni si alternano come gli strumenti, Steven cambia due volte chitarra, percorre il palco da cima a fondo, assorbe la musica, la restituisce. Dopo una cavalcata di almeno venti minuti, il pezzo termina in un’esplosione di effetti visivi e sonori. In mezzo a questa apocalisse, Nick Beggs sorride, tranquillo come un angelo, senza smettere un istante di pizzicare le corde del suo basso.

Come all’inizio, ma in ordine inverso, i musicisti lasciano il palco uno alla volta, salutati dagli applausi. Quando resta solo Beggs sul palco, le luci si spengono.
Dopo nemmeno cinque minuti, però, la band riprende posto. Un addetto porta a Steven uno sgabello e lui ci si arrampica sopra, dandomi l’occasione di vedere finalmente i suoi piedi scalzi.
‘Get all You Deserve’ suggella la serata che meglio non potrebbe. Verso la metà del brano Steven scompare dietro le quinte e riappare con il viso coperto dalla maschera antigas della copertina di Insurgentes.
Un boato saluta la fine del pezzo. I musicisti si avvicinano al pubblico, mentre alle loro spalle appaiono i loro nomi e Steven li abbraccia, uno ad uno, e li presenta.

Gli applausi sono meritati per tutti, ma sono particolarmente calorosi per Marco Minnemann e Theo Travis, e non a torto.
Minnemann ha suonato senza risparmio, con un’energia coinvolgente, tellurica, trascinante, e divertendosi come un matto. Non ho mai visto nessun batterista sorridere così spesso.
Theo Travis, nonostante la sua aria bonaria, ogni volta che dava fiato ai suoi strumenti sembrava aggiungere spessore al brano, colmando una mancanza di cui fino ad allora non ti eri accorto.
L’apporto più jazzistico è stato decisamente quelle di Adam Holzman, preciso, inappuntabile, capace di regalare respiro ai pezzi (ed al pubblico!) con i suoi lunghi assoli.
Niko Tsonev mi ha convinto più di Aziz Ibrahim, seconda chitarra nella prima parte del tour europeo: meno istrionico, meno sopra le righe, ma non meno capace e soprattutto meglio amalgamato con il resto del gruppo.
Su Nick Beggs sono di parte perché il basso è il mio strumento preferito, ma credo  che il suo stile ed il modo naturale con cui suona anche uno strumento tecnico e complesso come il Chapman stick abbia colpito tutti. La sua sintonia con Minnemann era evidente, forse l’alchimia meglio riuscita di un gruppo comunque sorprendente.

Dulcis in fundo, Steven Wilson, ovvero, in poche parole, un uomo che ha avuto il coraggio di lasciarsi andare ai suoi desideri e di trasformare le sue idee in un progetto,  senza curarsi del giudizio degli altri, raggiungendo davvero uno stato di grazia.

In chiusura, Minnemann si avvicina cauto al microfono di Steven, gli dà un paio di colpetti per provare che funzioni, poi scandisce convinto “E adesso vado a farmi una bella s**a!!”. Il pubblico scoppia a ridere. Steven, vedendone la reazione, si fa tradurre quello che ha detto, lo guarda perplesso e divertito, poi scuote l’indice verso il pubblico.
I musicisti spariscono sorridenti e soddisfatti dietro le quinte. Nonostante qualcuno provi a richiamarli sul palco, è chiaro che lo spettacolo è finito; ne dà conferma la ripresa delle proiezione dei filmati e della musica di sottofondo. Ma onestamente non è proprio possibile chiedere loro di più.
Ora non ci resta che aspettare il DVD live, sperando che sia riuscito a catturare tutta l’intensità e la magia di questo concerto assolutamente memorabile.